sabato 30 marzo 2013

UMILE CON GLI ULTIMI

In continuità con un pontificato sin dall'inizio improntato su umiltà e rifiuto della ricchezza, Papa Francesco ha scelto di celebrare il rito del Giovedì Santo nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma.
Alla cerimonia hanno partecipato dodici persone, quanti i discepoli, ma con una novità: la presenza di due donne di cui una serba , nata a Roma, di fede musulmana.
"Adesso faremo questa cerimonia di lavarci i piedi e ciascuno di noi pensi: io davvero sono disposto a servire, aiutare l'altro", così ha esordito Papa Francesco, per poi continuare:"Pensi quello soltanto, e questo segno è una carezza di Gesù, che fa perchè Gesù é venuto proprio per questo, per servire per aiutarci". "Quello che è più in alto deve essere al servizio degli altri", ha aggiunto, "Questo è un simbolo e un segno: lavare i piedi vuol dire che io sono al tuo servizio". Poi ha proseguito il suo dire, ritornando sul tema della speranza, la speranza che deve valere soprattutto anche per i detenuti del carcere e che loro stessi non devono farsi rubare. "Sempre con la speranza avanti, non fatevi rubare la speranza", queste le sue parole a proposito.
Il telo usato da Papa Francesco per il rito della lavanda dei piedi è stato realizzato da altri ragazzi, gli ospiti della comunità di Villa San Francesco di Pedavena. Qui hanno realizzato il "grembiule", tessuto con un ordito di 720 fili diversi giunti da Nazareth, Betlemme, Gerusalemme e altri paesi fra Palestina, Israele e Terra Santa, con l'intento di ricostruire simbolicamente i viaggi a piedi di Gesù di due mila anni fa.
Ancora una volta Papa Francesco ha fatto una scelta innovativa, audace e, non dimentichiamolo, generata da una Chiesa povera e oppressa come quella sudamericana. Al termine della celebrazione, il Papa ha donato uova di cioccolato e colombe pasquali ai giovani detenuti, ponendo ancora una volta l'accento sulla speranza e sull'aiuto reciproco.

martedì 26 marzo 2013

"LA TACHIPIRINA SERVE, MA ANCHE L'AVE MARIA"

L'importanza della Fede nel superamento degli inevitabili momenti difficili della nostra vita, trova come protagonista oggi Flavio Insinna, noto volto televisivo, di cui riportiamo delle dichiarazioni fatte nel 2006 e, in ultimo, nel marzo 2012 al quotidiano "Avvenire".
Nel 2006 Insinna, intervistato, sottolinea l'importanza che ha pregare Dio, perché gli faccia comprendere cosa vuole da lui. Molto spesso preghiamo Dio per chiedere qualcosa di cui abbiamo bisogno, quasi dettando modalità e tempi in base alle nostre necessità. "Sono stanco di far primeggiare il mio io anche davanti a Dio", dice Flavio, "con il passare del tempo ho smesso di pregare per chiedere quello che voglio io e mi sono affidato alla realizzazione della volontà di Dio nella mia esistenza".
Quando arrivano i momenti difficili si fa fatica ad accettare la sofferenza, ma in questi casi bisogna sforzarsi ad essere ottimisti, a vedere la positività e l'utilità dell'esperienza dolorosa. "Non è sempre facile vedere l'amore di Dio nella sofferenza", così sintetizza il concetto Insinna, offrendo anche un bel insegnamento che il papà gli ha lasciato: "La vita è una maratona, si impara piano piano, non ha scorciatoie, ma bisogna percorrere la strada fino in fondo, cercando di aiutare gli altri". Flavio Insinna è molto legato alla famiglia, crede molto nel valore della famiglia e a tal proposito, parlando della sua esperienza, sottolinea che puntando sull'Amore non si gioca mai d'azzardo.
Quando però ha perso il suo papà è stato messo a dura prova. Nel marzo 2012 all'Avvenire si racconta così: "Quando è morto mio padre sono rimasto settimane sdraiato per terra a guardare il soffitto, sono ingrassato". Ma poi continua:"Il dolore resta ma la fede mi ha aiutato". Lascia il cinema e la televisione e si dedica completamente alla famiglia, anche se nel frattempo scrive un libro dedicato al genitore scomparso.
"Ho una bellissima foto in bianco e nero sempre con me e un po' di chiacchiere al giorno con mio padre me le faccio; e sono certo che lui mi ascolta". Tuttavia, Flavio sottolinea che davanti alla morte la fede può vacillare; lui è riuscito a resistere ed ha resistito anche grazie ad un rosario che porta sempre con sè e che gli è stato regalato da un amico sacerdote. "Ho cercato di non sentirmi tradito, se avessi pensato di essere stato tradito dalla mia fede cattolica, ora sarei nel deserto". Poi racconta dei difficili momenti passati all'ospedale con il papà, momenti che però venivano alleggeriti dalla presenza di Dio. "Il Padreterno ti fa venire incontro una bambina che ti mette le manine fra le tue, come per chiedere aiuto, mentre la madre in una stanza sta morendo di cancro. Momenti che non si dimenticano".
Il papà di Flavio, che si era sempre adoperato accanto a drogati, disabili e psicopatici, era medico delle Paralimpiadi. "Una volta", racconta Insinna, "avevo 10 anni e mi portò con lui in Canada". "Un giorno mi disse: "Ecco, ora spingi quel signore sulla sedia a rotelle, così quando ti lamenti, ti ricordi di questo ragazzo che nuota senza gambe". Spinsi quella carrozzina per un mese, una grande lezione. Lui era un grande medico, però mi diceva:"Figlio mio la tachipirina serve, ma serve anche l'Ave Maria".

domenica 24 marzo 2013

"NON SIATE MAI TRISTI"

"Non lasciatevi rubare la speranza, non siate uomini e donne tristi". Questo l'incipit dell'omelia di Papa Francesco per la Messa delle Palme che dà inizio alla settimana santa. Una settimana santa che sicuramente ci riserverà altre sorprese, oltre a quella già annunciata per il Giovedì Santo, dove la "Lavanda dei piedi" sarà compiuta in un Istituto penitenziario minorile.
Il giorno dopo lo storico incontro con il "fratello" Ratzinger a Castel Gandolfo, Papa Francesco oggi ha parlato a più di duecento mila fedeli, ipnotizzandoli con il suo linguaggio assolutamente spontaneo e la sua ormai rinomata omelia "a braccio". Ricorda la sua nonna, che a lui e ai suoi amichetti aveva detto "il sudario non ha tasche", per fargli capire che i soldi, una volta morti, non possiamo portarceli con noi. Un chiaro ammonimento agli avidi e agli assetati di denaro.
Poi si rivolge ai giovani: "Devono dire al mondo che è bello portare Gesù al mondo, alle periferie, a tutti gli uomini".
"Un cristiano non può mai essere triste, non scoraggiatevi, la nostra non è una gioia che nasce dal possesso delle cose, ma dall'aver incontrato Gesù che è in mezzo a noi", continua sempre a braccio, "con Lui non siamo mai soli anche nei momenti difficili: è in questi momenti che arriva il diavolo, mascherato da altri, non ascoltatelo, seguite Gesù che ci porta sulle spalle".
Poi un passo importante sui mali del mondo: "Guerre, violenze, conflitti economici colpiscono chi è più debole, sete di denaro, sete di potere, corruzione, divisioni e crimini contro la vita e il creato". Conclude dicendo che "Noi possiamo vincere il male che c'è in noi e nel mondo, con Cristo e con il Bene". A bordo della jeep scoperta ha salutato i fedeli in Piazza San Pietro e quando ha riconosciuto un gruppo di fedeli di Buenos Aires ha fatto fermare la jeep, è sceso per andare ad abbracciarli e farsi abbracciare e baciare, in una occasione che ormai sta diventando sempre più solita, tanto da non preoccupare il generale e gli uomini della Gendarmeria Vaticana. Anzi lo stesso generale Giani  ha sollevato un disabile perché il Papa potesse baciarlo, come ha fatto anche con tanti bambini piccoli.

sabato 23 marzo 2013

CANTO E CREDO

Renato Zero
I cantanti, dal rock alla musica leggera, hanno un riscontro molto positivo con il proprio pubblico, perché cantano le proprie emozioni, trasmettono le loro sensazioni e molto spesso raccontano storie che sembrano riguardarci molto da vicino. Ma i cantanti hanno anche una fede, salda più di quanto non immaginiamo.
Papa Francesco deve il suo nome al Santo di Assisi e non c'è, dunque, momento migliore per conoscere quale idea hanno alcuni dei cantanti su San Francesco e sulla fede in generale.

Renato Zero, sul palco di Assisi nel 2011, in occasione dello spettacolo di beneficenza "Nel nome del cuore", ha parlato di San Francesco così: "Francesco è il Santo di tutti, quindi anche il mio. Ha condotto la sua vita sulle orme di Gesù Cristo pur provenendo da una famiglia benestante e pur avendo vissuto pienamente le passioni e gli entusiasmi tipici della gioventù. Un esempio unico nel suo genere, eternamente attuale, che colpisce credenti e non credenti. Un Santo che più si conosce e più si ama". Poi continua "Al cospetto di San Francesco mi ricarico, ritempro lo spirito e l'anima, respiro un'aria unica di fede, di pace e di serenità". "Sarò sempre a disposizione delle persone comuni, dei giovani, dei bisognosi, con l'aiuto e l'esempio di San Francesco".

Andrea Bocelli parla di San Francesco come un esempio di come con pochi mezzi si possono comunque fare grandi cose.

Mogol
"Secondo me", afferma Mogol, "San Francesco è l'uomo modello, colui che è più vicino alla figura di Gesù Cristo, è la figura di riferimento spirituale. E' l'uomo che si è spogliato di tutti i poteri, del fascino di qualsiasi cosa di cui era ricco, per andare in nome di Dio, per predicare, pregare e cercare nuovi cristiani. E' il Santo dei Santi. E' l'uomo che ha capito più di tutti che il nostro spazio vitale è relativo e deve essere vissuto in funzione di uno spazio eterno.

Molto interessante è anche la dichiarazione di Francesco Bianconi, leader dei Baustelle, che tra l'altro, nell'album "I mistici dell'Occidente" ha dedicato un brano a San Francesco. "Come San Francesco, cerco l'essenziale". "Inusuale per molta musica rock e pop", continua Bianconi, "ma io penso che la musica sia ricerca, scandaglio e quando serve anche denuncia. Francesco ci ricorda che per vivere bene bastano poche cose, non serve diventare schiavo di alcunché. Penso che la fase difficile che stiamo vivendo sia dovuta anche al fatto che non sappiamo accontentarci". Alla domanda sulla fede in Dio, Francesco Bianconi risponde: "Mettiamola così: pensare che ci sia qualcosa d'altro, trovare una chiave trascendente a questa vita, ci aiuta a vivere meglio".
Francesco Bianconi
"Non è tanto importante trovare Dio, secondo me, quanto piuttosto cercarlo. E' quella ambizione ad andare oltre che ci aiuta".
"Da due anni a questa parte", conclude, "sto sperimentando una vita lontana dagli sfarzi e dagli eccessi, più rivolta all'interiorità. Ricerca dell'essenziale, ancora una volta".

Per concludere, Patti Smith si confessa al Tg1: "San Francesco è la mia guida, mi hanno ispirato la sua semplicità, la sua umiltà e l'idea di vicinanza alla natura. Egli è l'esempio di come ogni essere umano dovrebbe condurre la propria esistenza. Tutti dovrebbero sentire l'umanità e lo spirito di San Francesco e trattare come ha fatto lui, con amore e umanità, la natura che ci circonda. Prima dell'intervista sono stata in visita ad Assisi".

venerdì 22 marzo 2013

CON LA TESTA E CON IL CUORE SI VA OVUNQUE


Oggi vi riporto la testimonianza di Giusy Versace, campionessa paraolimpica, la prima donna italiana amputata di entrambe le gambe ad aver corso e vinto una gara nazionale dei 100 metri. Lei ha avuto la forza di trasformare una tragedia in missione e in questo è stata aiutata dalla fede.

Mi chiamo Giusy Versace. Nel 2005 quando ne avevo 28 ho avuto un brutto incidente stradale sulla Salerno Reggio Calabria. Ero con un auto a noleggio, giravo per lavoro e stavo andando da un cliente, dal quale non ci sono mai arrivata. Ho beccato un acquazzone improvviso. Ho cercato di tenere la macchina ma questa è andata a sbattere contro un guardrail, che ha sfondato l’abitacolo della macchina come un apriscatole e mi ha tranciato tutte due le gambe. Oggi cammino grazie all’uso delle protesi ma è stata un’esperienza molto difficile.
 In particolare il giorno dell’incidente lo ricordo molto bene. Io non ho perso i sensi; ho visto le gambe tagliate; ho fatto di tutto per uscire dalla macchina. Mi fermo su questo aspetto non per impressionarvi ma per farvi capire quanto io davvero mi sono aggrappata alla vita. Quando si dice “aggrapparsi alla vita con i denti, le unghie”, ecco io posso dire di sapere cosa vuol dire. Io non volevo morire! Io non accettavo di morire lì in quel giorno, in quel momento senza gambe,senza rivedere la faccia di mio fratello, di mio padre. Ho fatto di tutto per tirarmi fuori dalla macchina e mi sono buttata sull’asfalto tenendomi quello che era rimasto delle mie gambe e pregando. Io quel giorno ho pregato tanto. Cercavo di fare un’Ave Maria che non riuscivo a finire perché il dolore era talmente devastante che non mi faceva ricordare le parole. Dicevo: “Ave Maria, piena di grazia” e poi ritornavo indietro perché non mi ricordavo come continuava. Così è stato per un bel po’. Pensavo agli affetti più cari, gridavo e piangevo, e dicevo “ho 28 anni e non voglio morire, voglio vivere!”.
Per fortuna le mie preghiere qualcuno le ha ascoltate.
Quando mi sono risvegliata in rianimazione, in ospedale io non ero preoccupata, non ero triste, ero solo sofferente per il dolore ma ero paradossalmente felice perché avevo avuto la prova che la mia preghiera qualcuno l’aveva ascoltata. Io ero viva e a me bastava questo. Io non avevo mai desiderato di morire. Io ho sempre desiderato vivere.
La cosa più bella è che io sono stata circondata da grande amore. Spesso si scappa dal dolore perché il dolore fa paura e tutti scappano. E’ umano che ci si spaventi. Soprattutto davanti a un caso di invalidità come la mia. Io ero un’invalida permanente. Io mi ero vista per tutta la vita su di una sedia a rotelle. Non sapevo neanche cosa fosse una protesi. Ma la mia forza è derivata dalla forza delle persone che mi sono state vicine. Da soli non si riesce, da soli non si fa niente. Io ho avuto una grande fede, grandissima ma soprattutto un grande amore da parte della mia famiglia. I miei genitori sono separati da quando io avevo 12 anni ma in questa situazione hanno dimostrato un’unione che io non mi aspettavo: mio padre era sempre al telefono per cercare il centro migliore; mia madre mi accarezzava i capelli e mi diceva “guarda che bella che sei, non hai neppure una cicatrice in viso”… Tutte cose che sembrano scontate ma che in quel momento sono fondamentali.
Oggi son passati sei anni e voi mi vedete in piedi, io corro, ho riscoperto la gioia di correre, ma arrivare fino a questo punto ha significato davvero tanta fatica, tanto impegno. Ogni cosa è stata veramente conquistata. Alzarmi da quella sedia a rotelle e camminare non è stato facile, le protesi non sono come un paio di scarpe che te le danno e cammini. C’è voluto tanto impegno. Ho imparato a sopportare anche il dolore e il dolore è una cosa che veramente ti stanca,ti sfinisce,ti irrita,ti rende nervoso, a volte ti rende cattivo.
Io sono stata ricoverata nel centro protesi dove è stato ricoverato anche il pilota Alex Zanardi. Stare lì è stato veramente un trauma, forse anche più grande dell’incidente, perché finché sei in ospedale o a casa sei coperto, circondato da tanto amore, ma in quel centro è come entrare in un altro mondo. Vedi tanti disabili, gente a cui manca un braccio o un occhio, gente a cui mancano le gambe. Vedi anche i focomelici. Non so se voi sapete chi sono i focomelici. Sono persone che nascono già con degli arti malformati. Il mondo è pieno di disabili, di gente malformata, di gente amputata. Io non so se ho vissuto nel paese dei balocchi, ma sinceramente non ne avevo mai visto uno prima,se non ogni tanto quello amputato, buttato per terra in metropolitana che chiede l’elemosina. Perché gli amputati sono così, quelli buttati in metropolitana che chiedono l’elemosina.
Purtroppo c’è ancora tanta ignoranza e io sto cercando di abbattere questa ignoranza, perché a me è capitata una cosa che mai mi potevo aspettare al mondo, non potevo immaginare di trovarmi a 28 anni con un tagliandino degli invalidi da posizionare sulla macchina. Non sempre si nasce disabili, a volte lo si diventa e non dobbiamo dimenticarcelo perché ci sentiamo sempre così indistruttibili, così imbattibili in questa società fatta solo di cose materiali, basta che si abbia una posizione sociale di livello, il macchinone piuttosto che la cosa firmata addosso ci sentiamo veramente invincibili, niente ci può toccare. Perché a noi? Invece quando ti capitano certe cose ti rendi conto che davanti a Dio siamo davvero tutti uguali, siamo tutti piccoli, davvero piccoli. E io l’ho pagato sulla mia pelle con l’incidente; però invito davvero la gente a riflettere, a non aspettare che capiti qualcosa nella vita per accorgersi che il mondo è fatto anche di persone diverse che hanno bisogno anche solo un sorriso.
Tornando al centro protesi: io lì ho incontrato molta gente sola,ma davvero sola e questa è la cosa più triste. Oggi non mi interessa se ho due gambe finte, oggi poi ho anche un braccio ingessato per cui mi resta solo un arto buono… speriamo di tenermelo! Ma non fa niente perché io mi sento davvero fortunata, io amo la vita, io sono felice. Oggi c’è il sole e non mi sembra vero di vedere il sole a Milano e questa cosa mi mette di buonumore. Secondo me, il sorriso e l’ottimismo sono davvero contagiosi a volte non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati, non lo sappiamo, perché vogliamo sempre di più, andiamo a cercare sempre qualcosa di meglio, non siamo mai contenti. Non abbiamo o non vogliamo trovare il tempo di fermarci, di riflettere davanti allo specchio e dirci:ma a me cosa manca? Io l’ho fatto tante volte,mi sono guardata allo specchio e mi mancano due gambe! Però io ho scoperto di avere un cuore veramente grande e questa cosa mi rende felice perché, come per il gioco di Pollyanna, non so se qualcuno di voi se lo ricorda. Quando ero piccola c’era questo cartone animato di questa bimba abbandonata dai suoi genitori, sempre con la zia e ogni giorno il suo gioco era quello di trovare qualcosa per cui ridere. Ecco io mi sono inventata il gioco di Pollyanna per superare questo momento difficile.
Al centro protesi io non ero sola, c’era mia madre. Lei ha lasciato tutto per stare con me. E trovarsi a trent’anni, io che vivevo sola già da dieci anni, trovarmi con mia madre che mi doveva aiutare per qualsiasi cosa, fare la doccia, vestirmi, per mettermi le gambe perché io non ce la facevo a mettermele da sola è stato difficile. Ho superato il periodo della sedia a rotelle e sono passata alle stampelle. Ero stanca, faticavo, non riuscivo a stare in piedi come adesso che sono in piedi già da dieci minuti e non mi devo sedere. Prima non ce la faceva perché il corpo era stanco, perché la protesi è un corpo estraneo,ti fa male, ti si taglia la pelle,si fanno delle ferite, non è semplice.
Ma io volevo, comunque, tornare alla mia vita di prima, io volevo tornare alla mia autonomia ,non accettavo l’idea di dover dipendere tutta la vita da una persona. E mi rendevo conto di essere fortunata perchè io da quella sedia a rotelle ho avuto la possibilità di alzarmi, c’è gente che questo non lo può fare e trova comunque uno scopo nella vita,trova comunque il modo di ridere alla vita. Io avevo la fortuna di potermi alzare dalla sedia a rotelle e sarebbe stato da folli non farlo. Grande fatica, grande impegno, un addestramento militare. Io ho fatto per un anno e mezzo una ginnastica che ancora oggi se ci penso di rifarla non so se ne avrei la forza. Però ne è valsa la pena perché quelle stampelle dopo due mesi le ho buttate, ho preso il bastone e l’ho tenuto solo venti giorni.
Dopo un anno e mezzo dall’incidente ho preso la patente e ho ricominciato a guidare. Anche quello è stato un momento difficile perché tornare in macchina, toccare il volante considerando il fatto che io ricordavo ogni singolo momento del mio incidente era un continuo flash back, un continuo ricordo di quel giorno. E non posso descrivervi l’ansia e l’attacco di panico il giorno in cui mi sono trovata sull’autostrada in macchina con la pioggia. Sono stata forte,sono stata brava. Mentre guidavo facevo l’Ave Maria, stavolta l’ho fatta tutta e sono riuscita a superare anche quel momento. Poi sono tornata a guidare anche lo scooter, ho preso il patentino e ogni tanto faccio anche qualche gara di go kart.
E poi qualcuno mi ha fatto conoscere il mondo paraolimpico. Io non lo conoscevo, non pensavo che potessero esistere degli sport per disabili. Io davvero non lo conoscevo, ma perché, secondo me, siamo troppo presi dalla nostra vita. Io avevo una vita da donna in carriera. Io sono nata a Reggio Calabria, ma a 18 anni sono andata a Londra e poi a vivere a Milano e in quegli anni ho solo lavorato, lavorato e lavorato. E ci tengo a dire che pur essendo una Versace, tutto quello che ho me lo sono conquistato: ho fatto la gavetta, ho lavorato per ditte concorrenti. Perché in questo mondo non sempre ci sono le porte aperte, a volte vogliono farti dei dispetti, non sempre sei simpatica a qualcuno e io per non passare per quella raccomandata se dovevo lavorare dieci lavoravo cento. E quando ho avuto l’incidente, ed ero in giro per lavoro, il mio pensiero principale era quello di ritornare a lavorare perché il lavoro era autonomia, il lavoro era fondamentale, era tutto. Io prima viaggiavo molto, ero capoarea e non avevo il tempo neanche per stare al telefono con mia madre, ero sempre in viaggio. A volte la sera ero talmente stanca che arrivavo negli alberghi e gli mandavo semplicemente un sms per dirle “sto bene”. E’ molto triste questo, perché il lavoro deve essere importante però non deve essere tutto.
Oggi la mia vita è fatta di altre cose: io sono presidente di una Onlus,sono volontaria dell’Unitalsi. Avevo visto un’immagine di Lourdes, avevo fatto una promessa, avevo fatto un voto che se fossi tornata a camminare io sarei andata a Lourdes, sarei andata a ringraziare. Un anno dopo sono stata con l’Unitalsi e non ero ancora in grado di camminare, non ci sono andata con le gambe, ma su una sedia a rotelle perché non ero ancora in grado di camminare e dopo un paio di metri mi dovevo sedere. Arrivata davanti a quella grotta è stato come se qualcuno mi stesse abbracciando, non so nemmeno spiegare la sensazione che ho provato e mi sono quasi sentita in colpa in quel momento perché io ero arrabbiata, ero molto arrabbiata, nonostante mi sentissi fortunata ero comunque arrabbiata perché continuavo a ripetermi: “Ma perché a me? Che cosa ho fatto di male? Sono sempre stata una persona onesta, generosa, dedicata agli altri se pur presa dai ritmi frenetici del mio lavoro. E in quel momento è passato accanto a me un ragazzo allettato, i volontari dell’Unitalsi lo spingevano verso la grotta. I nostri sguardi si sono incrociati e lui mi ha regalato un sorriso così grande, così contagioso che io lo guardai e pensai subito: “Ma perché io mi sto arrabbiando?” Vedere lui su quel lettino che aveva voglia di vivere e di ridere è stato come se una voce nella mia testa mi dicesse: “Perché non a te? Che hai tu più degli altri?”.
E da lì è cambiato completamente il modo di affrontare quello che stavo vivendo. E’ vero, perché non a me? Da allora non mi sono più chiesta il perché, è successo e basta. A volte bisogna passare dei momenti di dolore per rendersi conto davvero di quello che si ha. Tutti passiamo dei momenti di dolore chi fisico, chi nel cuore. Chi di noi non ha mai avuto un lutto in famiglia? Tutte le fasi dolorose portano comunque a riflettere, se nel nostro cuore c’è voglia di riflettere perché non tutti ne sono capaci. Io ho incontrato persone che erano arrabbiate con la vita e ci sono rimaste. Ho incontrato un ragazzo che aveva perso un braccio e mi hanno raccontato poi che si è ucciso, non ha retto. Ha fatto un po’ il discorso dello sportivo, ha detto “Non posso più correre, mi ammazzo”. Lui diceva: “Non ho più il braccio, che campo a fare?”. E si è buttato dal balcone. E’ una cosa terribile.
Tornando al movimento paraolimpico. Quando osservavo queste gare io le osservavo con interesse, ma non con l’idea di poter io correre e fare sport. Io prima non ero un’atleta, ero una sportiva come ce ne possono essere tanti, andavo in palestra, facevo spinning, qualche volta giocavo a tennis. Comunque sono tutte cose che oggi non posso più fare. Avevo comunque nel cuore l’idea di fare qualcosa,ma non sapevo cosa. In tanti mi dicevano che non potevo correre perché avevo 30 anni, ero vecchia, ero grande, non avevo due gambe. Dove vai senza due gambe? Non avevo il corpo da atleta, poi mi dicevano “Sculetti!”. Io da buon calabrese caparbia non accettavo quei no. Mi dava fastidio che un addetto ai lavori potesse scoraggiare un ragazzo o una ragazza che vuol fare sport, bisogna invogliare la gente a fare sport e soprattutto per chi vive una disabilità lo sport è una terapia è un mezzo di riscatto, di unione. Aiuta a superare i propri limiti, i propri imbarazzi. Perché i disabili spesso si vergognano, io mi sono vergognata. Voi avete visto una foto di me al mare, non potete sapere quanto mi è costato andare in quella spiaggia. Io sono andata nella spiaggia più affollata che c’è a Reggio Calabria, Scilla. E sono voluta andare lì perché lì sono cresciuta e lì avrei affrontato lo sguardo delle persone che mi conoscevano, era troppo facile andare in una spiaggia dove non mi conosceva nessuno. Se un estraneo ti guarda non importa, ma affrontare lo sguardo di chi ti conosce, per me, è stato ancora più difficile. Quando arriva l’estate le donne si dicono “Oddio ho la pancetta, ho la cellulite” e io invece in quel momento avevo due gambe finte, dovevo andare al mare con due gambe finte e questa cosami distruggeva l’anima. Non potevo accettare di andare con quelle gambe finte grosse e brutte. Non potevo tenerle addosso perché mi facevano male. E ricordo anche che i medici all’inizio mi dissero di bagnare le cicatrici con l’acqua salata e di far prendere il sole, dunque dovevo togliere queste gambe in mezzo alla spiaggia. E quel giorno, mio fratello se lo ricorda bene, io mi sono circondata delle persone più care, così mi sono sentita più forte. E ricordo un episodio molto triste ma che mi fece riflettere: una bambina si avvicinò con la stessa curiosità che hanno i bambini, giustamente ha visto due gambe parcheggiate accanto al lettino e si è avvicinata. La mamma arrivò di corsa, le mise la mano sugli occhi e le disse: “Vieni via con me!”. Io in quel momento mi sono sentita veramente un mostro, se mi avesse dato un pugno sul naso mi avrebbe fatto meno male. Ha dimostrato l’ignoranza che ancora c’è in giro, io mi sono sentita un mostro e mi sono detta “Mi vergogno ad uscire, la gente,se mi vede,si impressiona”. Ma subito dopo, è stata una cosa rapidissima, ho cambiato subito posizione e ho detto: ”No, perché io mi devo vergognare, perché ho avuto un incidente? Che si vergognassero i ladri, i delinquenti, gli assassini. Mi devo vergognare io che ho avuto un incidente? La gente deve vedere perché non è abituata. La gente ha paura del diverso, ha paura del dolore. Guardano la disabilità come se fosse una malattia contagiosa. La disabilità esiste come esiste il grasso ed esiste il magro. Esiste quella con i capelli rossi e quella con i capelli neri. Siamo tutti diversi chi per un motivo chi per un altro. Bisogna guardare dentro il nostro cuore e da quel giorno io ho deciso che non mi sarei più nascosta, e anzi sto portando avanti una lotta proprio per invogliare la gente ad uscire.
Ho iniziato a correre perché tutti mi dicevano che non potevo correre e nel momento in cui ho cominciato a gareggiare, perché io non volevo correre per diventare la campionessa. Io volevo correre perché volevo provare di nuovo il brivido della corsa. Io non posso correre normalmente, io ho delle gambe che mi permettono di camminare, ma non di correre. Voi correte per ogni motivo, siete in ritardo, dovete prendere l’autobus, spostare la macchina, vi parte l’aereo. Io non lo posso fare. Avete dimenticato le chiavi e dovete tornare indietro di corsa, io non lo posso fare nella quotidianità. E ho iniziato a correre davvero per ripicca, perché non accettavo l’idea che la gente mi dicesse che non potevo correre e mi sono tesserata nel momento in cui mi hanno detto che ero la prima donna in Italia che correva senza due gambe. Mi hanno detto: “Perché non gareggi?”. Io ho detto:“Io ho trent’anni, non ho mai fatto l’atleta”. Ho provato, ho provato, ma solo per divertimento non pensando di vincere. Ho cominciato tesserandomi con una società calabrese “Reggina”, perché anche se io ormai vivo a Milano ormai da 14 anni volevo rappresentare la mia terra. Volevo dare un schiaffo morale forte lì dove c’è ancora più ignoranza, purtroppo ce n’è in tutta Italia però in meridione prevale ancora questa forma di vergogna. E ho iniziato a correre lì e un mese dopo la mia prima gara mi sono ritrovata qualificata per i campionati italiani di Imola dove ho vinto la medaglia d’oro, ma soprattutto ho incontrato tutti quelli che dicevano che sarei caduta e quella medaglia per me, quel giorno, è valsa tripla. Da lì in poi io potevo anche fermarmi perché io avevo dato uno schiaffo morale a tutti quelli che dicevano che non ce la potevo fare,solo che poi ci ho preso gusto. Mi piace correre mi fa sentire viva,mi fa sentire libera. Don Alessio ha parlato di quella frase che ha letto sul giornale. La prima volta che ho camminato ho pianto dal dolore ed è vero. La prima volta che mi hanno alzato dalla sedia a rotelle per stare su queste gambe, a parte che mi sono sentita altissima e invece sono una gnoma, ma è stato talmente grande il dolore che io non ho aggettivi per farvi capire il dolore che ho provato. Ma la prima volta che ho corso, c’era mio fratello con me che mi teneva per mano perché io avevo paura di cadere, la cosa comica è che lui era con la sigaretta. Dovevamo correre e lui con una mano mi teneva e con l’altra la sigaretta, ma dopo un paio di metri lui mi ha lasciata ed io ho cominciato a correre da sola e mi sono sentita viva, felice. In quel momento poteva succedere qualunque cosa perché io ero felice,sentivo il vento tra i capelli,stavo saltellando,muovevo le braccia. Sono quelle cose davvero stupide da raccontare, ma io vi posso garantire che mi ha dato una gioia che io ancora oggi continuo a correre principalmente per quello, perché mi riempie il cuore. Ridendo e scherzando mi sono qualificata per le paraolimpiadi di Londra. La scorsa estate per due volte ho fatto il minimo per accedere alle paraolimpiadi, ma è stato veramente un caso. Io non mi aspettavo che dopo due anni mi trovassi classificata per una paraolimpiade quando c’è gente che si allena tutta una vita. Oggi continuo ad allenarmi relativamente; ci sono delle gare fino a giugno e il comitato paraolimpico si pronuncerà alla fine perché bisogna ancora vedere quanti posti sono riservati all’Italia, quindi il fatto che io mi sia qualificata non vuole dire necessariamente che io andrò a Londra. Se dovessi andare io credo che sarebbe l’emozione più grande dopo quella di essere tornata a camminare, ma se non dovessi andarci io sarei comunque felice del percorso che ho fatto, che sto facendo e soprattutto perché credo che io la mia medaglia nella vita me la sono già presa.
Oggi sono diventata una volontaria dell’Unitalsi, non parto mai come ammalata, che poi usano questo termine “ammalato” che a me non piace. Quei ragazzi non sono ammalati,sono ragazzi che come me vivono delle disabilità, perché li chiamano ammalati? La prima volta che andai all’Unitalsi mi chiesero: “Come vuoi partire come pellegrina o come ammalata?”. Ho risposto:“Scusa ma io non sono ammalata,mi mancano due gambe,ma non sono ammalata". A volte bisogna fare attenzione anche ai termini che si utilizzano. Oggi hanno tirato fuori il termine “diversamente abile”. Io non mi offendo se una mi dice disabile,se poi mi dici diversamente abile non cambia, non mi offendo, bisogna sempre stare attenti a come si utilizza il termine. Comunque io non riuscivo a stare lì a Lourdes come una pellegrina qualsiasi, mi sentivo che mi mancava qualcosa, di fare qualcosa. Ho deciso di aiutare. Io non posso spingere, non posso lavare le persone perché è già tanto se sto in piedi io. Però voglio fare qualcosa. Mi hanno messa in refettorio a spalmare la Nutella sulle fette biscottate e a fare i caffè. All’inizio ho pensato: “Ma cos’è? Io vengo a Lourdes per spalmare la nutella e fare caffè?”. Invece stando lì nell’ospedale, dove stanno i disabili spalmando la Nutella sulle fette biscottate ho conosciuto tantissima gente, ragazzi disabili che hanno solo bisogno di un sorriso, di una parola, di compagnia. E ho scoperto in quel momento quanto io fossi utile a loro, io che mi credevo inutile ho capito che grande regalo gli stavo facendo. Io gli davo retta, parlavo con loro, li ascoltavo, bevevo il caffè con loro. Sono delle cose veramente scontate, ma nella quotidianità questa gente è sola. Certe volte aspettano davvero il pellegrinaggio a Lourdes perché almeno si sentono considerati, si sentono in compagnia. Nella vita di tutti i giorni molti di loro sono abbandonati dalle famiglie. Vuoi perché la famiglia non ha la possibilità di stare insieme a loro, vuoi perché si vergognano.
Io quello che voglio e spero di trasferirvi è che la vita è veramente bella, godiamocela perché non abbiamo poi così tanto tempo come pensiamo di avere. Dobbiamo goderci il momento come viene. Ogni giorno troviamo qualcosa per cui essere grati a Dio, per cui sorridere. Secondo me è il modo più bello per ringraziarlo della vita che ci ha dato, sorridendo nonostante quello che ci capita. So che non è facile, io stessa ho delle giornate in cui mi sento davvero sottoterra, poi guardo la Madonna che c’è dentro la mia stanza e le dico: “Aiutami a trovare qualcosa per cui ridere oggi”. Io continuo a correre anche se non ci saranno le paraolimpiadi perché mi fa sentire bene, perché mi diverto e spero di convincere altra gente a farlo. Ho iniziato che ero la prima donna in Italia che correva senza due gambe: oggi siamo già in tre, quindi sono felice che solo a vedermi qualcuno abbia avuto il coraggio di uscire. Perché anche andare al campo di atletica con le gambe in spalle, sedersi a terra e cambiare le gambe non è facile, ci sono tanti che ti guardano con stupore, però la cosa bella è che la gente si abitua a vedere queste cose. Se ne deve parlare, bisogna affrontare, non bisogna lasciare queste cose in un angolino come se non ci interessassero. Io ho dovuto veramente pagarlo sulla mia pelle, vi invito a non farlo.
Sono anche presidente di questa associazione, questa Onlus che si chiama “Disabili no limits”.Non l’ho fondata io, me ne sono diventata presidente nel momento in cui ho conosciuto la loro missione. Raccogliamo fondi per donare ausili evoluti ai disabili economicamente svantaggiati. Perché una cosa va detta: lo sport grande terapia, grande mezzo di confronto, di unione, di integrazione per i disabili è un lusso perché gli ausili sono molto costosi e l’Asl purtroppo non li concede, dunque se non hai delle risorse economiche proprie non puoi fare sport. Sembra banale, ma è una cosa veramente grave. Tutti voi potete fare sport, in qualsiasi momento, ciò che dovrebbe essere un diritto di tutti per i disabili è un lusso. Io con l’Associazione ho regalato a dicembre una protesi ad un ragazzo calabrese e l’ho fatto correre. La cosa è nata in maniera veramente strana. Lui era un mio fan su Facebook, ho scoperto di avere dei fan, e mi scriveva tutti i giorni, tutti i giorni. Io non ho molto tempo per rispondere e per stare al computer, però mi ha colpito questo ragazzo che scriveva continuamente. Ho verificato la sua situazione e, pensate, oggi nel 2012 lui ha vent’anni e quando ne aveva 11, dieci anni fa, lui ha avuto un incidente con un trattore nel campo e ha pero una gamba, gliel’hanno dovuta amputare, vive in una situazione un po’ particolare, anche il padre ha delle difficoltà e la madre lavora e porta a casa quello che può raccogliendo le arance. D’estate lui non andava al mare con i suoi amici perché disse che quando andava la gente lo guardava e rideva e lui non si sentiva bene, così stava a casa. Lui ha vissuto nascosto per dieci anni. E mi è sembrata una cosa così folle che un ragazzo di 20 anni stesse nascosto e rinunciasse al piacere di andare al mare a fare un bagno con gli amici. Io l'ho preso per mano e l’ho portato dove anche io mi sono fatta farle protesi da bagno, perché anche lì guardate l’Asl come è strana, perché l’Asl ti passa la protesi da bagno e io gliel’ho detto. E mi disse “Io gliel’ho chiesta, ma non me la danno. Ho chiesto la protesi da bagno per andare al mare e mi hanno detto di no.” Io gli ho detto: “Digli che ti serve per farti la doccia, che ti serve per la tua quotidianità. Tu non puoi chiamare tua mamma per farti la doccia e ti serve per stare in piedi sotto la doccia”. Così gliel’hanno data. Bisogna prenderli in giro, quindi la situazione non è delle più brillanti. Però io nel mio piccolo sono riuscita a farlo andare al mare e a raccogliere i fondi per regalargli una protesi da corsa e ora lui corre, si sta allenando e a fine marzo farà la sua prima corsa per i campionati italiani Indoor dove io non potrò esserci per il braccio ingessato e lui esordirà con la sua protesi. Io ho fatto veramente una cosa piccola per lui, perché io non mi sono impegnata, però ho regalato una nuova vita a questo ragazzo, un nuova speranza perché oggi è più sicuro di sé, corre, va al mare. Ecco io vado a letto alla sera felice pensando di essere riuscita in qualche modo a trasformare quella che per me è stata una grande tragedia in qualcosa di buono per qualcun altro.
Come donna, non che gli uomini non soffrano, ma le donne ci mettono un pò più di tempo perché in loro scatta una femminilità mozzata. Io tornavo a casa, aprivo l’armadio e trovavo un sacco di cose che non potevo più mettere: i tacchi, le minigonne, gli abitini, i fuseaux che sono cose stupide, però nella vita quotidiana ti segnano da morire. Per me aprire un cassetto era una coltellata, aprire l’armadio era un’altra coltellata. Mi sono fatta forza, ho messo tutto in un bustone e ho fatto beneficenza, ho regalato le cose nuove che non potevo più mettere. Perché, secondo me, non bisogna guardare nella vita a quello che non abbiamo più, dobbiamo guardare a quello che ancora ci resta e che ancora abbiamo. Questo per me è il segreto per vivere felici in qualche modo, perché poi felici… la felicità cos’è? Sono momenti, non c’è una vita felice 365 giorni però io sono contenta.
Una frase che ho letto su un taxi: “Ieri è il passato, domani è il mistero, oggi è il dono!” Concludo dicendovi che per me e per voi oggi è un grande dono…godiamocelo!
GIUSY VERSACE





giovedì 21 marzo 2013

"PAPA FRANCESCO MI HA BACIATO"

Cesare Cicconi, 50 anni, è affetto da SLA dalla nascita, ma ha voluto essere presente a tutti i costi, per la necessità di sentirsi ancora più vicino a Dio.
Accompagnato dai volontari dell'Unitalsi e da sua sorella, Cesare vive su una barella; ha il corpo completamente paralizzato, ad eccezione di una mano, che muove con una piccola fune.
Racconta all'Ansa di essere un cattolico praticante, da sempre socio dell'Unitalsi; nonostante costretto su una barella, continua a vivere pienamente: è tifoso dell'Ascoli e va spesso allo stadio ed ha sempre avuto il sogno di volare. Così un giorno i suoi amici dell'Unitalsi, grazie alla disponibilità di una compagnia aerea, hanno potuto organizzargli un viaggio a Lourdes in aereo, per farlo partecipare, con sua grande gioia, al pellegrinaggio nazionale.
Torniamo a due giorni fa. Il Papa, sulla sua jeep (non blindata), saluta i fedeli, li saluta molto confidenzialmente, come nessuno aveva fatto prima: si rigira per sottolineare un saluto e saluta addirittura alzando il pollice (per fare OK), più confidenziale di così non si può!
Poi arriva il bellissimo momento: dopo aver baciato un bambino, sebbene piangente, che Gli è stato porto, chiede di fermare la jeep, scende, mettendo in crisi la scorta, e va verso Cesare.
"Mi ha dato un bacio sulla fronte ed ha detto a me e ai miei amici di pregare per Lui", riferisce Cesare ai giornalisti. Molti degli amici dell'Unitalsi hanno ringraziato il Pontefice per il gesto fatto, ma Lui, molto umilmente ha risposto "Grazie a voi, pregate per me!". Anche un ateo, di fronte a tale realtà, si commuoverebbe, è questa la forza di Papa Francesco!
Cesare vent'anni fa è stato baciato anche da Papa Giovanni Paolo II e lo racconta molto fiero. E' molto felice, ora, più di prima. "Da quando Papa Francesco se n'è andato, non faccio altro che ridere", sottolinea Cesare, e gli amici confermano che ha il sorriso stampato sul volto.
Don Vincenzo, volontario anche lui dell'Unitalsi, ha commentato quanto accaduto riportandolo ad un passo del Vangelo, in cui Gesù si avvicina alla suocera di Pietro malata, si china, la pende per mano e la solleva.

mercoledì 20 marzo 2013

PAPA FRANCESCO: LA SVOLTA

Papa Francesco dona dei fiori alla Madonna
"NON ABBIATE PAURA DELLA BONTA' E DELLA TENEREZZA"
E' difficile oggi, ancora di più rispetto ad una settimana fa, vivere senza fede, vivere senza la certezza che Dio esiste e che ci segue passo dopo passo.
A febbraio il Papa Benedetto XVI si trova di fronte alla necessità di dover abbandonare la "guida" della Chiesa, perché le sue condizioni fisiche e la sua età avanzata non gli consentono più di poter continuare ad assumere un ruolo così importante e che richiede tanta fermezza e determinazione. Noi fedeli, senza dubbio, subiamo un trauma: è la prima volta che ci troviamo di fronte ad una situazione del genere; siamo abituati a Papa Giovanni Paolo II, che fino all'ultimo secondo, non ha abbandonato la Croce. Molti di noi entrano in crisi, alcuni ridimensionano la propria fede e sicuramente dimezzano e riducono drasticamente la fiducia nella Chiesa.
Si indìce il Conclave. Parte il toto-Papa: Scola, Scherer, O'Malley. Nessuno pensa realmente che é Dio, attraverso lo Spirito Santo, a dover illuminare le menti dei Cardinali. Così arriva l'inaspettata sorpresa.
Habemus Papam: il Cardinale Bergoglio, con il nome di Papa Francesco, è il nuovo Pontefice. Nei primi dieci secondi siamo tutti un po' delusi, chiunque ha azzardato una previsione, e quasi tutti non l'hanno azzeccata. Ma poi arriva quel "BUONASERA" che ci emoziona, seguito subito da: "MI HANNO SCELTO DALLA FINE DEL MONDO", che ci entusiasmano.
Qualche altro minuto ed ognuno di noi, mettendo da parte tutte le previsioni, comincia a pensare al nome Francesco: una grande responsabilità. San Francesco di Assisi è il patrono d'Italia, riscuote consensi da destra e manca, ma soprattutto è l'esempio di umiltà, povertà e obbedienza. E Papa Francesco, da subito ci ha fatto capire, nonostante l'evidente ossimoro "Francescano-Gesuita", che lui ha intenzione di seguire le orme del Santo di Assisi. Il giorno dopo va a pregare la Madonna, Le dona dei fiori, ci va in un auto semplice, passa a pagare il conto là dove ha alloggiato e rinuncia all'abbigliamento sfarzoso che la Chiesa Gli ha riservato.
Poi la Santa Messa con i Cardinali, omelia breve ma molto concreta: camminare, edificare, confessare. Le prime regole dettate alla Chiesa. Ecco che la Chiesa sembra stia cambiando davvero. Arriviamo a ieri. Si attendono tutte le personalità politiche più rappresentative e importanti del mondo, re, regine, presidenti e così via. Papa Francesco ha il suo ospite d'onore, Sergio Sanchez, un cartonero argentino: lo fa sedere a quattro metri da lui. Un cartonero è una persona che si guadagna da vivere raccogliendo i cartoni per strada, una persona povera e umile: Papa Francesco ha scelto a chi rivolgersi, ha scelto chi aiutare. Poi sulla sua Papamobile, saluta tutti i fedeli, proprio tutti; se qualcuno è stato salutato superficialmente, si rigira e lo risaluta. Ecco che a questo punto ci emoziona: dapprima bacia affettuosamente un bambino che Gli viene porto, sebbene il bimbo pianga, poi il grande gesto. Chiede di fermare il mezzo, scende e va ad abbracciare e baciare un disabile di circa cinquant'anni, che sorride, orgoglioso dell'attenzione che mai nella sua mente gli sarebbe potuta essere stata rivolta da un Papa. Io mi emoziono, capisco che i Potenti del Mondo hanno un ruolo molto marginale, capisco che sta cambiando qualcosa.
Un risultato il Papa, in una settimana, l'ha già ottenuto: ci ha fatto capire che è più vicino a noi di quanto non crediamo, che si è imposto di seguire le tracce di San Francesco e che sarà molto vicino ai deboli. Ora tocca a noi, aiutarlo nella preghiera e fare. Sì, anche noi dobbiamo fare, anche noi dobbiamo iniziare a cambiare.