Oggi vi riporto la
testimonianza di Giusy Versace, campionessa paraolimpica, la prima donna
italiana amputata di entrambe le gambe ad aver corso e vinto una gara nazionale
dei 100 metri. Lei ha avuto la forza di trasformare una tragedia in missione e
in questo è stata aiutata dalla fede.
Mi chiamo Giusy Versace. Nel 2005 quando ne avevo 28 ho avuto un
brutto incidente stradale sulla Salerno ‐ Reggio Calabria. Ero con un auto a noleggio,
giravo per lavoro e stavo andando da un cliente, dal quale non ci sono mai
arrivata. Ho beccato un acquazzone improvviso. Ho cercato di tenere la macchina
ma questa è andata a sbattere contro un guardrail, che ha sfondato l’abitacolo
della macchina come un apriscatole e mi ha tranciato tutte due le gambe. Oggi
cammino grazie all’uso delle protesi ma è stata un’esperienza molto difficile.
Per fortuna le mie preghiere qualcuno le ha ascoltate.
Quando mi sono risvegliata in rianimazione, in ospedale io non ero
preoccupata, non ero triste, ero solo sofferente per il dolore ma ero
paradossalmente felice perché avevo avuto la prova che la mia preghiera
qualcuno l’aveva ascoltata. Io ero viva e a me bastava questo. Io non avevo mai
desiderato di morire. Io ho sempre desiderato vivere.
La cosa più bella è che io sono stata circondata da grande amore.
Spesso si scappa dal dolore perché il dolore fa paura e tutti scappano. E’
umano che ci si spaventi. Soprattutto davanti a un caso di invalidità come la
mia. Io ero un’invalida permanente. Io mi ero vista per tutta la vita su di una
sedia a rotelle. Non sapevo neanche cosa fosse una protesi. Ma la mia forza è
derivata dalla forza delle persone che mi sono state vicine. Da soli non si
riesce, da soli non si fa niente. Io ho avuto una grande fede, grandissima ma
soprattutto un grande amore da parte della mia famiglia. I miei genitori sono
separati da quando io avevo 12 anni ma in questa situazione hanno dimostrato
un’unione che io non mi aspettavo: mio padre era sempre al telefono per cercare
il centro migliore; mia madre mi accarezzava i capelli e mi diceva “guarda che
bella che sei, non hai neppure una cicatrice in viso”… Tutte cose che sembrano
scontate ma che in quel momento sono fondamentali.
Oggi son passati sei anni e voi mi vedete in piedi, io corro, ho
riscoperto la gioia di correre, ma arrivare fino a questo punto ha significato
davvero tanta fatica, tanto impegno. Ogni cosa è stata veramente conquistata. Alzarmi
da quella sedia a rotelle e camminare non è stato facile, le protesi non sono
come un paio di scarpe che te le danno e cammini. C’è voluto tanto impegno. Ho
imparato a sopportare anche il dolore e il dolore è una cosa che veramente ti stanca,ti
sfinisce,ti irrita,ti rende nervoso, a volte ti rende cattivo.
Io sono stata ricoverata nel centro protesi dove è stato ricoverato
anche il pilota Alex Zanardi. Stare lì è stato veramente un trauma, forse anche
più grande dell’incidente, perché finché sei in ospedale o a casa sei coperto,
circondato da tanto amore, ma in quel centro è come entrare in un altro mondo.
Vedi tanti disabili, gente a cui manca un braccio o un occhio, gente a cui
mancano le gambe. Vedi anche i focomelici. Non so se voi sapete chi sono i
focomelici. Sono persone che nascono già con degli arti malformati. Il mondo è
pieno di disabili, di gente malformata, di gente amputata. Io non so se ho
vissuto nel paese dei balocchi, ma sinceramente non ne avevo mai visto uno
prima,se non ogni tanto quello amputato, buttato per terra in metropolitana che
chiede l’elemosina. Perché gli amputati sono così, quelli buttati in metropolitana
che chiedono l’elemosina.
Purtroppo c’è ancora tanta ignoranza e io sto cercando di abbattere
questa ignoranza, perché a me è capitata una cosa che mai mi potevo aspettare
al mondo, non potevo immaginare di trovarmi a 28 anni con un tagliandino degli
invalidi da posizionare sulla macchina. Non sempre si nasce disabili, a volte
lo si diventa e non dobbiamo dimenticarcelo perché ci sentiamo sempre così
indistruttibili, così imbattibili in questa società fatta solo di cose
materiali, basta che si abbia una posizione sociale di livello, il macchinone
piuttosto che la cosa firmata addosso ci sentiamo veramente invincibili, niente
ci può toccare. Perché a noi? Invece quando ti capitano certe cose ti rendi
conto che davanti a Dio siamo davvero tutti uguali, siamo tutti piccoli,
davvero piccoli. E io l’ho pagato sulla mia pelle con l’incidente; però invito
davvero la gente a riflettere, a non aspettare che capiti qualcosa nella vita
per accorgersi che il mondo è fatto anche di persone diverse che hanno bisogno
anche solo un sorriso.
Tornando al centro protesi: io lì ho incontrato molta gente sola,ma
davvero sola e questa è la cosa più triste. Oggi non mi interessa se ho due
gambe finte, oggi poi ho anche un braccio ingessato per cui mi resta solo un
arto buono… speriamo di tenermelo! Ma non fa niente perché io mi sento davvero fortunata,
io amo la vita, io sono felice. Oggi c’è il sole e non mi sembra vero di vedere
il sole a Milano e questa cosa mi mette di buonumore. Secondo me, il sorriso e l’ottimismo
sono davvero contagiosi a volte non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati,
non lo sappiamo, perché vogliamo sempre di più, andiamo a cercare sempre
qualcosa di meglio, non siamo mai contenti. Non abbiamo o non vogliamo trovare
il tempo di fermarci, di riflettere davanti allo specchio e dirci:ma a me cosa manca?
Io l’ho fatto tante volte,mi sono guardata allo specchio e mi mancano due
gambe! Però io ho scoperto di avere un cuore veramente grande e questa cosa mi
rende felice perché, come per il gioco di Pollyanna, non so se qualcuno di voi
se lo ricorda. Quando ero piccola c’era questo cartone animato di questa bimba
abbandonata dai suoi genitori, sempre con la zia e ogni giorno il suo gioco era
quello di trovare qualcosa per cui ridere. Ecco io mi sono inventata il gioco di
Pollyanna per superare questo momento difficile.
Al centro protesi io non ero sola, c’era mia madre. Lei ha lasciato
tutto per stare con me. E trovarsi a trent’anni, io che vivevo sola già da
dieci anni, trovarmi con mia madre che mi doveva aiutare per qualsiasi cosa,
fare la doccia, vestirmi, per mettermi le gambe perché io non ce la facevo a mettermele
da sola è stato difficile. Ho superato il periodo della sedia a rotelle e sono
passata alle stampelle. Ero stanca, faticavo, non riuscivo a stare in piedi
come adesso che sono in piedi già da dieci minuti e non mi devo sedere. Prima
non ce la faceva perché il corpo era stanco, perché la protesi è un corpo
estraneo,ti fa male, ti si taglia la pelle,si fanno delle ferite, non è
semplice.
Ma io volevo, comunque, tornare alla mia vita di prima, io volevo
tornare alla mia autonomia ,non accettavo l’idea di dover dipendere tutta la
vita da una persona. E mi rendevo conto di essere fortunata perchè io da quella
sedia a rotelle ho avuto la possibilità di alzarmi, c’è gente che questo non lo
può fare e trova comunque uno scopo nella vita,trova comunque il modo di ridere
alla vita. Io avevo la fortuna di potermi alzare dalla sedia a rotelle e
sarebbe stato da folli non farlo. Grande fatica, grande impegno, un
addestramento militare. Io ho fatto per un anno e mezzo una ginnastica che
ancora oggi se ci penso di rifarla non so se ne avrei la forza. Però ne è valsa
la pena perché quelle stampelle dopo due mesi le ho buttate, ho preso il
bastone e l’ho tenuto solo venti giorni.
Dopo un anno e mezzo dall’incidente ho preso la patente e ho
ricominciato a guidare. Anche quello è stato un momento difficile perché
tornare in macchina, toccare il volante considerando il fatto che io ricordavo
ogni singolo momento del mio incidente era un continuo flash back, un continuo
ricordo di quel giorno. E non posso descrivervi l’ansia e l’attacco di panico
il giorno in cui mi sono trovata sull’autostrada in macchina con la pioggia.
Sono stata forte,sono stata brava. Mentre guidavo facevo l’Ave Maria, stavolta
l’ho fatta tutta e sono riuscita a superare anche quel momento. Poi sono
tornata a guidare anche lo scooter, ho preso il patentino e ogni tanto faccio
anche qualche gara di go kart.
E poi qualcuno mi ha fatto conoscere il mondo paraolimpico. Io non
lo conoscevo, non pensavo che potessero esistere degli sport per disabili. Io
davvero non lo conoscevo, ma perché, secondo me, siamo troppo presi dalla
nostra vita. Io avevo una vita da donna in carriera. Io sono nata a Reggio
Calabria, ma a 18 anni sono andata a Londra e poi a vivere a Milano e in quegli
anni ho solo lavorato, lavorato e lavorato. E ci tengo a dire che pur essendo
una Versace, tutto quello che ho me lo sono conquistato: ho fatto la gavetta,
ho lavorato per ditte concorrenti. Perché in questo mondo non sempre ci sono le
porte aperte, a volte vogliono farti dei dispetti, non sempre sei simpatica a
qualcuno e io per non passare per quella raccomandata se dovevo lavorare dieci lavoravo
cento. E quando ho avuto l’incidente, ed ero in giro per lavoro, il mio
pensiero principale era quello di ritornare a lavorare perché il lavoro era
autonomia, il lavoro era fondamentale, era tutto. Io prima viaggiavo molto, ero
capoarea e non avevo il tempo neanche per stare al telefono con mia madre, ero
sempre in viaggio. A volte la sera ero talmente stanca che arrivavo negli
alberghi e gli mandavo semplicemente un sms per dirle “sto bene”. E’ molto
triste questo, perché il lavoro deve essere importante però non deve essere
tutto.
Oggi la mia vita è fatta di altre cose: io sono presidente di una
Onlus,sono volontaria dell’Unitalsi. Avevo visto un’immagine di Lourdes, avevo
fatto una promessa, avevo fatto un voto che se fossi tornata a camminare io
sarei andata a Lourdes, sarei andata a ringraziare. Un anno dopo sono stata con
l’Unitalsi e non ero ancora in grado di camminare, non ci sono andata con le
gambe, ma su una sedia a rotelle perché non ero ancora in grado di camminare e
dopo un paio di metri mi dovevo sedere. Arrivata davanti a quella grotta è
stato come se qualcuno mi stesse abbracciando, non so nemmeno spiegare la
sensazione che ho provato e mi sono quasi sentita in colpa in quel momento
perché io ero arrabbiata, ero molto arrabbiata, nonostante mi sentissi
fortunata ero comunque arrabbiata perché continuavo a ripetermi: “Ma perché a
me? Che cosa ho fatto di male? Sono sempre stata una persona onesta, generosa,
dedicata agli altri se pur presa dai ritmi frenetici del mio lavoro. E in quel
momento è passato accanto a me un ragazzo allettato, i volontari dell’Unitalsi
lo spingevano verso la grotta. I nostri sguardi si sono incrociati e lui mi ha regalato
un sorriso così grande, così contagioso che io lo guardai e pensai subito: “Ma
perché io mi sto arrabbiando?” Vedere lui su quel lettino che aveva voglia di
vivere e di ridere è stato come se una voce nella mia testa mi dicesse: “Perché
non a te? Che hai tu più degli altri?”.
E da lì è cambiato completamente il modo di affrontare quello che
stavo vivendo. E’ vero, perché non a me? Da allora non mi sono più chiesta il
perché, è successo e basta. A volte bisogna passare dei momenti di dolore per rendersi
conto davvero di quello che si ha. Tutti passiamo dei momenti di dolore chi
fisico, chi nel cuore. Chi di noi non ha mai avuto un lutto in famiglia? Tutte
le fasi dolorose portano comunque a riflettere, se nel nostro cuore c’è voglia
di riflettere perché non tutti ne sono capaci. Io ho incontrato persone che
erano arrabbiate con la vita e ci sono rimaste. Ho incontrato un ragazzo che
aveva perso un braccio e mi hanno raccontato poi che si è ucciso, non ha retto.
Ha fatto un po’ il discorso dello sportivo, ha detto “Non posso più correre, mi
ammazzo”. Lui diceva: “Non ho più il braccio, che campo a fare?”. E si è
buttato dal balcone. E’ una cosa terribile.
Tornando al movimento paraolimpico. Quando osservavo queste gare io
le osservavo con interesse, ma non con l’idea di poter io correre e fare sport.
Io prima non ero un’atleta, ero una sportiva come ce ne possono essere tanti,
andavo in palestra, facevo spinning, qualche volta giocavo a tennis. Comunque
sono tutte cose che oggi non posso più fare. Avevo comunque nel cuore l’idea di
fare qualcosa,ma non sapevo cosa. In tanti mi dicevano che non potevo correre
perché avevo 30 anni, ero vecchia, ero grande, non avevo due gambe. Dove vai
senza due gambe? Non avevo il corpo da atleta, poi mi dicevano “Sculetti!”. Io
da buon calabrese caparbia non accettavo quei no. Mi dava fastidio che un
addetto ai lavori potesse scoraggiare un ragazzo o una ragazza che vuol fare
sport, bisogna invogliare la gente a fare sport e soprattutto per chi vive una
disabilità lo sport è una terapia è un mezzo di riscatto, di unione. Aiuta a
superare i propri limiti, i propri imbarazzi. Perché i disabili spesso si
vergognano, io mi sono vergognata. Voi avete visto una foto di me al mare, non
potete sapere quanto mi è costato andare in quella spiaggia. Io sono andata
nella spiaggia più affollata che c’è a Reggio Calabria, Scilla. E sono voluta andare
lì perché lì sono cresciuta e lì avrei affrontato lo sguardo delle persone che
mi conoscevano, era troppo facile andare in una spiaggia dove non mi conosceva
nessuno. Se un estraneo ti guarda non importa, ma affrontare lo sguardo di chi
ti conosce, per me, è stato ancora più difficile. Quando arriva l’estate le
donne si dicono “Oddio ho la pancetta, ho la cellulite” e io invece in quel
momento avevo due gambe finte, dovevo andare al mare con due gambe finte e questa
cosami distruggeva l’anima. Non potevo accettare di andare con quelle gambe
finte grosse e brutte. Non potevo tenerle addosso perché mi facevano male. E
ricordo anche che i medici all’inizio mi dissero di bagnare le cicatrici con
l’acqua salata e di far prendere il sole, dunque dovevo togliere queste gambe
in mezzo alla spiaggia. E quel giorno, mio fratello se lo ricorda bene, io mi sono
circondata delle persone più care, così mi sono sentita più forte. E ricordo un
episodio molto triste ma che mi fece riflettere: una bambina si avvicinò con la
stessa curiosità che hanno i bambini, giustamente ha visto due gambe
parcheggiate accanto al lettino e si è avvicinata. La mamma arrivò di corsa, le
mise la mano sugli occhi e le disse: “Vieni via con me!”. Io in quel momento mi
sono sentita veramente un mostro, se mi avesse dato un pugno sul naso mi avrebbe
fatto meno male. Ha dimostrato l’ignoranza che ancora c’è in giro, io mi sono
sentita un mostro e mi sono detta “Mi vergogno ad uscire, la gente,se mi
vede,si impressiona”. Ma subito dopo, è stata una cosa rapidissima, ho cambiato
subito posizione e ho detto: ”No, perché io mi devo vergognare, perché ho avuto
un incidente? Che si vergognassero i ladri, i delinquenti, gli assassini. Mi
devo vergognare io che ho avuto un incidente? La gente deve vedere perché non è
abituata. La gente ha paura del diverso, ha paura del dolore. Guardano la
disabilità come se fosse una malattia contagiosa. La disabilità esiste come
esiste il grasso ed esiste il magro. Esiste quella con i capelli rossi e quella
con i capelli neri. Siamo tutti diversi chi per un motivo chi per un altro.
Bisogna guardare dentro il nostro cuore e da quel giorno io ho deciso che non
mi sarei più nascosta, e anzi sto portando avanti una lotta proprio per invogliare
la gente ad uscire.
Ho iniziato a correre perché tutti mi dicevano che non potevo
correre e nel momento in cui ho cominciato a gareggiare, perché io non volevo
correre per diventare la campionessa. Io volevo correre perché volevo provare
di nuovo il brivido della corsa. Io non posso correre normalmente, io ho delle
gambe che mi permettono di camminare, ma non di correre. Voi correte per ogni
motivo, siete in ritardo, dovete prendere l’autobus, spostare la macchina, vi parte
l’aereo. Io non lo posso fare. Avete dimenticato le chiavi e dovete tornare
indietro di corsa, io non lo posso fare nella quotidianità. E ho iniziato a
correre davvero per ripicca, perché non accettavo l’idea che la gente mi
dicesse che non potevo correre e mi sono tesserata nel momento in cui mi hanno
detto che ero la prima donna in Italia che correva senza due gambe. Mi hanno
detto: “Perché non gareggi?”. Io ho detto:“Io ho trent’anni, non ho mai fatto
l’atleta”. Ho provato, ho provato, ma solo per divertimento non pensando di
vincere. Ho cominciato tesserandomi con una società calabrese “Reggina”, perché
anche se io ormai vivo a Milano ormai da 14 anni volevo rappresentare la mia
terra. Volevo dare un schiaffo morale forte lì dove c’è ancora più ignoranza,
purtroppo ce n’è in tutta Italia però in meridione prevale ancora questa forma
di vergogna. E ho iniziato a correre lì e un mese dopo la mia prima gara mi
sono ritrovata qualificata per i campionati italiani di Imola dove ho vinto la
medaglia d’oro, ma soprattutto ho incontrato tutti quelli che dicevano che
sarei caduta e quella medaglia per me, quel giorno, è valsa tripla. Da lì in
poi io potevo anche fermarmi perché io avevo dato uno schiaffo morale a tutti
quelli che dicevano che non ce la potevo fare,solo che poi ci ho preso gusto.
Mi piace correre mi fa sentire viva,mi fa sentire libera. Don Alessio ha
parlato di quella frase che ha letto sul giornale. La prima volta che ho
camminato ho pianto dal dolore ed è vero. La prima volta che mi hanno alzato
dalla sedia a rotelle per stare su queste gambe, a parte che mi sono sentita
altissima e invece sono una gnoma, ma è stato talmente grande il dolore che io
non ho aggettivi per farvi capire il dolore che ho provato. Ma la prima volta
che ho corso, c’era mio fratello con me che mi teneva per mano perché io avevo
paura di cadere, la cosa comica è che lui era con la sigaretta. Dovevamo
correre e lui con una mano mi teneva e con l’altra la sigaretta, ma dopo un
paio di metri lui mi ha lasciata ed io ho cominciato a correre da sola e mi sono
sentita viva, felice. In quel momento poteva succedere qualunque cosa perché io
ero felice,sentivo il vento tra i capelli,stavo saltellando,muovevo le braccia.
Sono quelle cose davvero stupide da raccontare, ma io vi posso garantire che mi
ha dato una gioia che io ancora oggi continuo a correre principalmente per
quello, perché mi riempie il cuore. Ridendo e scherzando mi sono qualificata
per le paraolimpiadi di Londra. La scorsa estate per due volte ho fatto il
minimo per accedere alle paraolimpiadi, ma è stato veramente un caso. Io non mi
aspettavo che dopo due anni mi trovassi classificata per una paraolimpiade
quando c’è gente che si allena tutta una vita. Oggi continuo ad allenarmi
relativamente; ci sono delle gare fino a giugno e il comitato paraolimpico si
pronuncerà alla fine perché bisogna ancora vedere quanti posti sono riservati all’Italia,
quindi il fatto che io mi sia qualificata non vuole dire necessariamente che io
andrò a Londra. Se dovessi andare io credo che sarebbe l’emozione più grande
dopo quella di essere tornata a camminare, ma se non dovessi andarci io sarei
comunque felice del percorso che ho fatto, che sto facendo e soprattutto perché
credo che io la mia medaglia nella vita me la sono già presa.
Oggi sono diventata una volontaria dell’Unitalsi, non parto mai
come ammalata, che poi usano questo termine “ammalato” che a me non piace. Quei
ragazzi non sono ammalati,sono ragazzi che come me vivono delle disabilità,
perché li chiamano ammalati? La prima volta che andai all’Unitalsi mi chiesero:
“Come vuoi partire come pellegrina o come ammalata?”. Ho risposto:“Scusa ma io
non sono ammalata,mi mancano due gambe,ma non sono ammalata". A volte
bisogna fare attenzione anche ai termini che si utilizzano. Oggi hanno tirato
fuori il termine “diversamente abile”. Io non mi offendo se una mi dice
disabile,se poi mi dici diversamente abile non cambia, non mi offendo, bisogna
sempre stare attenti a come si utilizza il termine. Comunque io non riuscivo a
stare lì a Lourdes come una pellegrina qualsiasi, mi sentivo che mi mancava
qualcosa, di fare qualcosa. Ho deciso di aiutare. Io non posso spingere, non
posso lavare le persone perché è già tanto se sto in piedi io. Però voglio fare
qualcosa. Mi hanno messa in refettorio a spalmare la Nutella sulle fette
biscottate e a fare i caffè. All’inizio ho pensato: “Ma cos’è? Io vengo a
Lourdes per spalmare la nutella e fare caffè?”. Invece stando lì nell’ospedale,
dove stanno i disabili spalmando la Nutella sulle fette biscottate ho
conosciuto tantissima gente, ragazzi disabili che hanno solo bisogno di un
sorriso, di una parola, di compagnia. E ho scoperto in quel momento quanto io
fossi utile a loro, io che mi credevo inutile ho capito che grande regalo gli stavo
facendo. Io gli davo retta, parlavo con loro, li ascoltavo, bevevo il caffè con
loro. Sono delle cose veramente scontate, ma nella quotidianità questa gente è
sola. Certe volte aspettano davvero il pellegrinaggio a Lourdes perché almeno
si sentono considerati, si sentono in compagnia. Nella vita di tutti i giorni
molti di loro sono abbandonati dalle famiglie. Vuoi perché la famiglia non ha
la possibilità di stare insieme a loro, vuoi perché si vergognano.
Io quello che voglio e spero di trasferirvi è che la vita è
veramente bella, godiamocela perché non abbiamo poi così tanto tempo come
pensiamo di avere. Dobbiamo goderci il momento come viene. Ogni giorno troviamo
qualcosa per cui essere grati a Dio, per cui sorridere. Secondo me è il modo
più bello per ringraziarlo della vita che ci ha dato, sorridendo nonostante quello
che ci capita. So che non è facile, io stessa ho delle giornate in cui mi sento
davvero sottoterra, poi guardo la Madonna che c’è dentro la mia stanza e le
dico: “Aiutami a trovare qualcosa per cui ridere oggi”. Io continuo a correre
anche se non ci saranno le paraolimpiadi perché mi fa sentire bene, perché mi
diverto e spero di convincere altra gente a farlo. Ho iniziato che ero la prima
donna in Italia che correva senza due gambe: oggi siamo già in tre, quindi sono
felice che solo a vedermi qualcuno abbia avuto il coraggio di uscire. Perché
anche andare al campo di atletica con le gambe in spalle, sedersi a terra e
cambiare le gambe non è facile, ci sono tanti che ti guardano con stupore, però
la cosa bella è che la gente si abitua a vedere queste cose. Se ne deve
parlare, bisogna affrontare, non bisogna lasciare queste cose in un angolino
come se non ci interessassero. Io ho dovuto veramente pagarlo sulla mia pelle,
vi invito a non farlo.
Sono anche presidente di questa associazione, questa Onlus che si
chiama “Disabili no limits”.Non l’ho fondata io, me ne sono diventata
presidente nel momento in cui ho conosciuto la loro missione. Raccogliamo fondi
per donare ausili evoluti ai disabili economicamente svantaggiati. Perché una cosa
va detta: lo sport grande terapia, grande mezzo di confronto, di unione, di
integrazione per i disabili è un lusso perché gli ausili sono molto costosi e
l’Asl purtroppo non li concede, dunque se non hai delle risorse economiche
proprie non puoi fare sport. Sembra banale, ma è una cosa veramente grave. Tutti
voi potete fare sport, in qualsiasi momento, ciò che dovrebbe essere un diritto
di tutti per i disabili è un lusso. Io con l’Associazione ho regalato a
dicembre una protesi ad un ragazzo calabrese e l’ho fatto correre. La cosa è
nata in maniera veramente strana. Lui era un mio fan su Facebook, ho scoperto
di avere dei fan, e mi scriveva tutti i giorni, tutti i giorni. Io non ho molto
tempo per rispondere e per stare al computer, però mi ha colpito questo ragazzo
che scriveva continuamente. Ho verificato la sua situazione e, pensate, oggi
nel 2012 lui ha vent’anni e quando ne aveva 11, dieci anni fa, lui ha avuto un
incidente con un trattore nel campo e ha pero una gamba, gliel’hanno dovuta
amputare, vive in una situazione un po’ particolare, anche il padre ha delle
difficoltà e la madre lavora e porta a casa quello che può raccogliendo le
arance. D’estate lui non andava al mare con i suoi amici perché disse che
quando andava la gente lo guardava e rideva e lui non si sentiva bene, così stava
a casa. Lui ha vissuto nascosto per dieci anni. E mi è sembrata una cosa così
folle che un ragazzo di 20 anni stesse nascosto e rinunciasse al piacere di
andare al mare a fare un bagno con gli amici. Io l'ho preso per mano e l’ho
portato dove anche io mi sono fatta farle protesi da bagno, perché anche lì
guardate l’Asl come è strana, perché l’Asl ti passa la protesi da bagno e io
gliel’ho detto. E mi disse “Io gliel’ho chiesta, ma non me la danno. Ho chiesto
la protesi da bagno per andare al mare e mi hanno detto di no.” Io gli ho
detto: “Digli che ti serve per farti la doccia, che ti serve per la tua
quotidianità. Tu non puoi chiamare tua mamma per farti la doccia e ti serve per
stare in piedi sotto la doccia”. Così gliel’hanno data. Bisogna prenderli in
giro, quindi la situazione non è delle più brillanti. Però io nel mio piccolo
sono riuscita a farlo andare al mare e a raccogliere i fondi per regalargli una
protesi da corsa e ora lui corre, si sta allenando e a fine marzo farà la sua
prima corsa per i campionati italiani Indoor dove io non potrò esserci per il
braccio ingessato e lui esordirà con la sua protesi. Io ho fatto veramente una
cosa piccola per lui, perché io non mi sono impegnata, però ho regalato una
nuova vita a questo ragazzo, un nuova speranza perché oggi è più sicuro di sé,
corre, va al mare. Ecco io vado a letto alla sera felice pensando di essere
riuscita in qualche modo a trasformare quella che per me è stata una grande
tragedia in qualcosa di buono per qualcun altro.
Come donna, non che gli uomini non soffrano, ma le donne ci mettono
un pò più di tempo perché in loro scatta una femminilità mozzata. Io tornavo a
casa, aprivo l’armadio e trovavo un sacco di cose che non potevo più mettere: i
tacchi, le minigonne, gli abitini, i fuseaux che sono cose stupide, però nella
vita quotidiana ti segnano da morire. Per me aprire un cassetto era una coltellata,
aprire l’armadio era un’altra coltellata. Mi sono fatta forza, ho messo tutto
in un bustone e ho fatto beneficenza, ho regalato le cose nuove che non potevo
più mettere. Perché, secondo me, non bisogna guardare nella vita a quello che
non abbiamo più, dobbiamo guardare a quello che ancora ci resta e che ancora
abbiamo. Questo per me è il segreto per vivere felici in qualche modo, perché
poi felici… la felicità cos’è? Sono momenti, non c’è una vita felice 365 giorni
però io sono contenta.
Una frase che ho letto su un taxi: “Ieri è il passato, domani è il
mistero, oggi è il dono!” Concludo dicendovi che per me e per voi oggi è un
grande dono…godiamocelo!
GIUSY VERSACE
1 commento:
joya shoes 245n7gfscs618 joya sko,joya sko,joya skor,Cipő joya,zapatos joya,joya schoenen verkooppunten,Scarpe joya,chaussures joya,joya schuhe wien,joya schuhe joya shoes 146h5yxkyk949
Posta un commento